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Perché non sanno

Mercoledì scorso l’ennesima tragedia, questa volta a 10 minuti da casa, ha risvegliato il dolore sommesso per le vittime del Mottarone. Auto precipita da una terrazza panoramica del parco falciando un bimbo di 3 anni. Alla guida dell’auto (dicono) sotto sequestro, un settantenne (dicono) senza patente e (sempre dicono) con precedenti penali. Proprio il parco dove si fa il picnic al sabato, dove gettiamo il pane alle papere, dove alla fine incontri sempre qualcuno.
Sulle chat, fuori da scuola, sul pianerottolo, al mercato, i commenti si ripetono identici, si scuote la testa, si levano insulti. Dovrebbero linciarla certa gente! Sbatterla in galera e gettare la chiave! Come si può morire così? … Come se a stordirlo di rabbia il non senso facesse meno male. Come se a riempirlo di botte quel buco trovasse risposte.

Non so perché, ma il mio pensiero corre di nuovo, immediatamente, a chi è rimasto a fare i conti con se stesso: forse perché chi se n’è andato è già in un abbraccio più grande, forse perché non so fare i conti con il Cielo sopra di me, forse perché al posto loro potrei esserci io. Non avrò inserito forchettoni tra i freni o affondato Titanic, ma quante volte non li ho legati al seggiolone, non li ho rincorsi sul ciglio della strada o sul ramo di un albero alto; quante volte ho detto frasi senza ritorno o sono arrivata per un pelo.

Non so perché, ma mi è più facile mettermi nei panni di chi ha sbagliato, di chi è rimasto fuori da quell’abbraccio, di chi sente che non gli basteranno 10 anni di carcere a smorzare il rimorso e sa che nessun conto tornerà di fronte alla giustizia spietata del suo cuore.

Non so perché, ma mi è più facile pensare alle famiglie di chi ha sbagliato, al vuoto in cui sono precipitate, alla confusione dei sentimenti e al coraggio di continuare a vivere e ad amare.

Perché ci fa sentire più leggeri dare la colpa a qualcuno? Immaginarci alla guida un mostro, un delinquente, un pluripregiudicato, il solito schema insomma? Non potrebbe essere invece lo stesso nonnino con l’Alzheimer che domenica scorsa ci regalava il pane per le papere? O un uomo talmente provato dalla vita da aver perso la strada di casa? O un poveretto con la nostra faccia fra 40 anni?
Perché ci fa stare in pace con noi stessi mettere a destra i buoni e a sinistra i cattivi? Perché mille volte al giorno ci chiediamo “Chi ha lasciato accese le luci? Chi ha perso il ciuccio? Per colpa di chi abbiamo fatto tardi?” Come se quel chi pareggiasse i conti.

Eppure non sempre va così, a pensarci bene. Se ripenso a quelle volte in cui davvero abbiamo sbagliato grosso, e sarebbe potuta andare molto peggio e invece è finita con qualche punto sul naso, una notte in pronto soccorso e una cena a base di gelato… ricordo che quelle volte non ci siamo additati a vicenda. È stato tutto un rassicurarsi, un dividersi il peso, un consolarsi. Perché “Chi mai ci avrebbe pensato? Tu non c’entri nulla. Anch’io avrei fatto lo stesso”. Come se non volessimo aggiungere dolore al dolore, come se il senso di colpa già fosse abbastanza per lasciarsi soli. Come a dirsi “siamo dalla stessa parte”.

Perché non ci sono a destra i buoni e a sinistra i cattivi e una riga nel mezzo.

Di qua ci siamo noi che sbagliamo – tutti, nessuno escluso – e di là quel che a noi sfugge. Il dolore di chi vorrebbe tornare indietro, lo sconcerto di chi non si capacita, i pezzi che ci mancano, le storie che non sappiamo, l’irragionevole impossibile da giudicare che implora silenzio. Tutto racchiuso in un grido profondo quanto un abbraccio: “Non sanno quello che fanno!”
Nel mezzo un baratro di misericordia.

Se così non fosse, se sapessimo tutto, saremmo tutti perduti e nessuno perdonato.

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