Non è che litighiamo litighiamo.
È che ci diciamo troppe parole quando siamo già sulla porta, o già in un’altra stanza o già a fare altro.
Le incastriamo strette strette come in lavastoviglie, tra una call e l’altra, tra la scarpiera e il pianerottolo, tra le 7.55 e le 8, tra lavate i denti e andate a nanna.
Ce le buttiamo addosso di passaggio, col piede a bloccare l’ascensore e il catino dei panni in mano. Le urliamo compresse tra punti esclamativi, come se urlate avessero più spinta e più peso.
Sono staffette a ostacoli. Passaggi di consegne in stato di emergenza. Liste della spesa a frigo vuoto. E quasi sempre cose da fare subito.
Le stesse parole avrebbero un suono diverso, seduti su un divano a mangiare dallo stesso barattolo Häagen-Dazs al caramello.
Ma così spremute tirano fuori il peggio di noi.
Potrebbero essere storie da raccontare, ricordi da mescolare, occasioni per stare insieme, e invece.
Mio marito questo fenomeno frullatore l’ha sintetizzato in un’equazione:
Difficile ridurre i fattori, impossibile rubare altre ore al sonno. Frullare tutto senza un ordine preciso e si salvi chi può.
Poi un giorno d’autunno arriva la febbre, la tosse e il fiato corto. E, come ricordi non troppo lontani, di nuovo le sale d’attesa del pronto soccorso, il gocciare tenace di una flebo, una culla solo più grande e una sedia troppo scomoda per riposare.
E tu sei di nuovo costretta a guardare e basta.
A trovarlo quel tempo.
A rimandare tutto il resto.
A restare ferma immobile per non svegliarlo.
E allora capisci che c’è bisogno di un tempo lento per raccontarsi le cose belle, perché quelle fanno meno rumore.
Di un tempo lento per districare un capriccio, altrimenti tiri forte e s’ingarbuglia .
Di un tempo lento per le confidenze, per i biscotti con le formine, per le domande giuste.
Di un tempo lento per imparare ad allacciarsi le scarpe, per raccontare che cos’è la clorofilla e come si dice grazie in rumeno.
Capisci che si può arrivare tardi a scuola magari, ma senza rinunciare a un bacio sulla porta.