Io Michela Murgia l’ho conosciuta troppo tardi e troppo poco per sentirmela amica. Lo schwa* mi ricordava una brutta bocciatura all’esame di glottologia, così ci ho rinunciato a pelle. Poi mi è capitato per caso di sentirla parlare della sua malattia ormai in fase terminale. Wow! – ho pensato – questa è una donna viva. Perciò sì, mi è dispiaciuto davvero che se ne sia andata così in fretta. Adesso, a rileggere certi ricordi dolenti degli amici e anche certi libri suoi, so che se solo avessi avuto più tempo l’avrei amata e odiata spassionatamente. E mi ritrovo a sorridere immaginandomela finalmente in pace con le sue mille battaglie dentro e fuori, come fosse davvero un’amica di vecchia data, mentre se la ride di tutti noi, dall’altra parte.
Se la ride, io penso, anche di tutto il baccano che stiamo facendo qui giù noi poveretti, assai curiosi di sapere in quale girone cerchio bolgia cielo collocarla esattamente. La stessa frenesia dantesca che ci piglia ogni qualvolta muore uno che in vita è stato vivo. E che per forza di cose, soprattutto se muore sul più bello, lascia ai posteri un racconto sconnesso, incoerente, a tratti adolescenziale, difficile da inquadrare, con picchi di strenua lucidità e baratri di impareggiabile demenza. Aggiungi in certi casi il caratteraccio, il sonno, le giornate no, le lacune scolastiche, i sassolini nelle scarpe, le storie dei vecchi con cui fare i conti per sapere chi sei, le allergie di stagione, le idee degli amici, la dietrologia politica, le frasi estrapolate. Ce n’è abbastanza per restarsene zitti all’indomani di una vita che ha preso il largo, senza pretese di giudizio manco fossimo noi il Padreterno o il dio con la bilancia.
Io me la vedo Michela Murgia che se la ride da lassù, a pensare come si è affannata lei e come ancora ci affanniamo noi a trovare un senso a questa vita, scialacquando testa, tempo, soldi, energie, quando poi dall’altra parte è tutto così chiaro in un baleno. E come pure, tornasse viva, lo rifarebbe uguale.
Rido un po’ meno, anzi mi dispiace, per quelli che su questa terra sanno già tutto. Figli maggiori che non hanno mai lasciato la casa del padre e sanno dove collocare chi. Tu dentro tu fuori. (A volte fuori anche il papa, se non si allinea come dicono loro. Se ha le braccia troppo aperte, il cuore troppo desto, il fiato troppo corto).
Rido un po’ meno, anzi mi fanno male, quei figli messi al bando perché si fanno troppe domande ad alta voce. Perché pestano i piedi cercando una strada non ancora tracciata. Perché vorrebbero sentirsi a casa e invece a casa si sentono stretti. Quei figli inquieti che restano al margine della festa tra mille dubbi. Che ricordano con nostalgia il profumo del pane ma hanno i piedi troppo sporchi per entrare. Quei figli piccoli che l’ignoranza, la pigrizia, l’indifferenza, quando non la prepotenza, ha ferito senza più ritorno.
Michela, chiediglielo tu al Padreterno, cosa significa famiglia.
Facci sapere se davvero c’è posto per tutti. Se la porta è sempre aperta, se la meta vale il viaggio.
Se ha qualche senso camminare su questa terra cocciutamente figli.
Articolo commovente di M. Iasevoli su Avvenire, dove si legge che la Chiesa è Casa, o Famiglia, o come lo si voglia chiamare quel posto dove ci si sente figli amati.
* Lo schwa spiegato da Vera Gheno. Che il linguaggio non sia solo questione di parole, noi dovremmo saperlo bene. C’è persino Chi a forza di parole fece il mondo.