Sarà che sono entrata negli anta, sarà che i bimbi fanno domande difficili.
Ogni tanto mi metto a pesare la felicità.
Mi chiedo se ne sia valsa la pena, se era questo quel che volevo, se sia abbastanza, troppo o troppo poco. Mi chiedo perché, pur essendoci tutti gli ingredienti per essere felice a dismisura, a volte io mi senta così incompleta.
Faccio sacchetti, imbottiglio, inscatolo, travaso, catalogo, archivio, etichetto. Controllo che non ci siano falle, o smagliature, o invisibili predatori. Se non si fa viva lei me la vado a cercare. Mi ritaglio degli spazi miei, mi prendo quel che mi spetta.
È con questa idea fissa che oggi me ne vado in ufficio. Nonostante il cielo grigio, lo sciopero dei treni, le tasche piene di fazzoletti. Nonostante tutto si metta di traverso, mollo tutto e vado. Un giorno a settimana in cui dimostro a me stessa di sapermi chiudere la porta alle spalle, saper prendere un treno in orario, saper camminare sulle mie gambe magari sui tacchi, saper perdere tempo in una pausa caffè, saper gestire una riunione, saper dire si fa senza dover contare fino a 3.
Un giorno a settimana in cui mi dico: sono ancora capace. Di tener fuori dal cuore tutte le piccole cose che mi fanno sentire sempre a metà, sempre in affanno, sempre da meno. E le vedo sul treno delle 8.17 certe mamme come me (magari anche certi papà, non lo so): paiono tante lumachine con la casetta sulle spalle. La telefonata alla pediatra, il messaggino ai nonni, il memo al papà, la notifica di scarlattina in chat, il carrello del clicca e vai da chiudere in fretta, avranno freddo? avranno caldo? avranno tutto?, gli orari dei treni per essere di ritorno prima che la campanella suoni, la testa sempre altrove e pezzi sparsi ovunque.
Oggi mio marito non lavora. “Se io dovessi prender ferie ogni volta che tu vai in ufficio!” lo prendo in giro. Ma sento che con lui a casa sarò più tranquilla. Ci penserà lui alla campanella, alla pediatra, alla sacchetta della nanna, al clicca e vai. Magari proverò l’ebbrezza di una lumachina senza casetta addosso.
Poi però succede una cosa strana. Scopro che a me il caffè non è mai piaciuto.
E a un certo punto ho proprio voglia di tornare a casa. Non mi capitava da un po’.
E quando finalmente il treno mi riporta indietro, me li trovo tutti lì che si sbracciano dal balcone.
Piove, ma in giardino le rose continuano a fiorire.
La colazione del mattino è ancora lì, mischiata alle briciole della merenda. La sacchetta della nanna dimenticata a scuola. Va bene così.
E allora capisco un pezzettino in più.
Che la felicità non è sentirsi pieni, ma gustarselo quel vuoto.
Che la felicità è sempre all’improvviso, quando meno te l’aspetti e non la stai cercando a tutti i costi.
Proprio lì addosso, mischiata a quelle piccole cose che si mettono sempre di traverso e vorresti far fuori.
Che la felicità non è la strada già fatta quando ti volti indietro a contare, ma tu che cammini con la tua casetta addosso e domani chi lo sa.
La felicità è Chi ti aspetta, lì dove sei se non scappi altrove.
Non vuole essere un commento, bensì un grazie.Ho fatto bene ad ascoltare il suggerimento di una Amica.
Come mi rispecchio! Grazie isa!!