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Controluce

Qualche mese fa ci siamo fatti un regalo per festeggiare la nostra nuova casa finalmente abitabile. Non potendo intagliare in un ulivo un letto nuziale di epiche memorie, abbiamo deciso di collocare al centro del focolare domestico – tra le imprecazioni di amici volenterosi accorsi a dare una mano su e giù per le scale tra un festare di pargoli randagi che nemmeno i Proci ubriachi – un lungo tavolo di legno che in qualche modo richiamasse le peripezie omeriche e la voglia di tornare a casa.
Di epico finora si sono viste solo le interiezioni della mamma, che ha riversato il suo decennale stress da parquet rigato un metro più in su. Proprio lì dove ad altezza naso di minore non accompagnato si consumano sciagure epocali. Dopo nemmeno dieci giorni, il nostro aspirante talamo retrocesso a mensa comune era tutto un graffio, uno scarabocchio, un’incisione. E alla mamma, che fosse per lei sfamerebbe i figlioli a base di megabyte proteici sospesi per un orecchio nel metaverso pur di non nominare il tubo digerente, questa roba del lasciare a tutti i costi un segno nel mondo la manda ai matti. Sì, perché lei odia le macchie, gli aloni, le briciole, le pieghe, gli strascichi, le rughe, gli scarti. Insomma tutto ciò che tendenzialmente segna il passaggio di un essere vivente su questa terra.
Il suo paradiso a dirla tutta profuma di Napisan.
E invece adesso sul nostro tavolo totem anche il traballante Tiresia può toccare con mano la formazione delle colline, la tabellina del 7, i calcoli per l’ISEE, le forchettate di un mini Ciclope in preda all’ira funesta, un cerchio sbrodolato di pesto, boock col ck e i rettangolini affondati della battaglia navale.

C’è tanto sporco in questi giorni. I piedi fuori dai sandali, le mani mischiate in un unico piatto, i denari maneggiati sotto il tavolo, la cena lasciata a metà, gli occhi impastati di sonno, l’umido di un bacio, la spada tinta a mezz’aria, un gallo stonato. Sudore, fango, sangue, schegge, lividi, strappi, spintoni, cadute, panni macchiati, ossa slogate, strada in salita. Vita che lascia il segno.

Mia mamma diceva: tienila all’aria quella ferita, deve respirare.
Io per inerzia ripeto, non ho mai dietro i cerotti.

Sarà così anche per i nostri segni? Basterà tenerli all’aria per guarire? Quando la pietra rotolerà e sarà un’esplosione di luce. Non si vedranno ancora meglio le ditate sui vetri, le manate di Nutella sui muri, gli schizzi di ragù, le ragnatele negli angoli, gli scarabocchi sul tavolo, le orecchie dei quaderni, le tazze sbeccate, i soliti difetti, le brutte storture, le cose impossibili da riparare?  

Forse che allora saremo salvi non a furia di lavar via, ma semplicemente lasciandoci amare?

Controluce

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