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Conta le stelle!

Siccome molto spesso nessuno mi ascolta, molto spesso io parlo da sola.
O con l’aspirapolvere.

E così, in un’epoca di madri pentite che se solo avessero saputo, anch’io passeggiando sottobraccio le dico: Ecco, stai a vedere, facciamo come se. Via i puzzle, via le bambole, via i travestimenti. Via i 280 pezzi del trenino Ikea, i dinosauri, le macchinine. Via anche le pitture lavabili che però non si lavano da sole, lo slime, i libri con le finestrelle, la cucinetta con tutte le pentoline e il loro fracasso da circo. Niente più graffi sul parquet! Né ditate sui vetri! Evviva! Mai più toppe sui pantaloni, minuscoli fermaglietti ovunque e scarpini da calcio inzaccherati. E sai cos’altro? Niente cose che cadono, pizzicotti sotto il tavolo, libretti vaccinali e chat di classe.
Così, un centimetro alla volta, io e la mia fidata aspirapolvere risucchiamo giorni e mesi e anni di storie, che iniziate minuscole ci hanno un centimetro alla volta scombussolate, tramortite, annientate, rimbambite. Restiamo solo io e lei, in via Col Senno di Poi angolo Ma Chi Me L’ha Fatto Fare, nel nostro minuscolo appartamento sempre in ordine, minimalista, funzionale e candeggiato. Con un magnifico elenco di cose da fare già flaggate sul frigo. E dentro viveri in ordine cromatico e/o di scadenza. (E appostate in un angolo tutte le mie manie pronte a sbranarmi.)

Lo so, bimbi miei, è brutto da dire. Che sono stanca. Che sono stufa. Che non vedo l’ora di mettervi a nanna. Potreste pensare che siete un peso, un intralcio, un ingombro, persino un errore.
Le mie amiche mi dicono: prenditi del tempo per te, prova a staccare. (Perché noi mamme facciamo sempre così: prodighiamo consigli che non convincono nemmeno noi. Ma in buona fede eh, con tanto affetto.)
E io ci ho messo un po’ a capirlo, in questo mondo che ci incoraggia a migrare altrove quando fa freddo. Come se la fatica fosse una malattia rara e mettesse in dubbio tutto il resto.
Sono stanca. Ed è normale che sia così. E non c’è nulla di male a dirlo.
Perché qui sulla terra la fatica è l’unità di misura dell’amore.
Perciò sì, sono stanca. Eppure lo rifarei.

Certo, col senno di poi mi sarei sposata un surfista thailandese e avrei passato i pomeriggi sulla spiaggia a fare origami. Col senno di poi, sempre il surfista, l’avrei cercato anche capace di accoppiare i calzini. Ma siccome i surfisti thailandesi non li svendono nemmeno col Black Friday (e non sempre quello che pensi sia il meglio per te poi davvero è il meglio per te), mi tengo il marito F205, i nasi che colano, le pesche che cadono, le ragnatele che incombono, la muffa che avanza, le lavatrici che straripano… e stiamo a vedere cosa succede.

Così ci dicevamo all’inizio della storia. Stiamo a vedere cosa succede.
Forse eravamo curiosi, sconsiderati, inesperti. Forse eravamo solo più figli.
Non sapevamo quanto spazio avreste occupato. Ma non sapevamo nemmeno di poterne fare tanto.
Conta le stelle del cielo, se ci riesci. Che non c’entra niente con i conti a fine mese.

Adesso, col senno di poi, la sentiamo tutta la stanchezza. È il peso specifico di quei sogni, che ci riempiono le mani e il cuore più di quanto ci sentiamo capaci.
Eppure, bimbi miei, quanto vorrei ancora oggi calpestare sotto le scarpe il senno di poi, fatto di bilanci, di consuntivi e di te l’avevo detto, e tornare a contare le stelle.
Gravida di speranza bambina, sul bordo di qualcosa che sta per accadere.

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