Tardo pomeriggio di luglio in oratorio: canestro, fontanella, persino un po’ d’ombra gratis, ghiacciolo a 50 centesimi, refolo d’aria quando passa il treno. Non se ne trovano mica tanti in giro di posti così. Valida alternativa all’aria condizionata + polpette di IKEA, tra un ginocchio sbucciato e un pallone tirato oltre la rete si riescono persino a scambiare due chiacchiere con un’amica. Almeno finché non scappa qualcosa. Esperienza sensoriale che certe volte diventa di gruppo, soprattutto se l’amica ha le chiavi della scuola materna in cui lavora e ti propone di fare un giro. E dopo il tour dei bagni, con le impronte dei piedini colorati per terra, ci sono tanti giochi, e le bambole, e i tricicli, e le cucinette, e decine di libri da sbirciare. 8 bimbetti con gli occhi sgranati dallo stupore che si aggirano per le aule vuote di maestre e grembiulini, dimentichi di ogni capriccio e impellenza primaria. Solo la mia spilungona resta fuori, nel cortile dell’oratorio, impegnata in capriole e verticali con un’amica, ma la tengo d’occhio oltre la porta a vetri.
D’altronde ormai è grande, penso, e sa come cavarsela.
Invece nel giro di 30 secondi, forse un minuto scarso, succede quello che non avevo previsto.
Forse si stanca di far acrobazie, forse l’amichetta cambia gioco, forse semplicemente alza gli occhi e non ci vede più. Inizia a vagare inquieta tra le altalene, gira l’angolo, raggiunge in fretta l’uscita, poi torna indietro spaesata come in un labirinto senza filo. Io sono oltre la porta a vetri, ma lei non può sentirmi. Tempo di mettere a terra il piccolino, di staccarmi dalle gambe il fratello koala poco più grandicello, di intercettare l’amica e affidarle gli altri, di capire come si spinge il maniglione antipanico senza far suonare l’allarme e mi precipito in cortile.
Amore! Sono qui!
Si volta, mi guarda interdetta, si lancia in una corsa sbilenca che dopo qualche metro arresta. Mi par di vedere una lacrima ricacciata indietro giusto in tempo. Qualcosa di simile a un rossore costretto sottopelle.
A ripensarci dopo, tornando a casa, io non ho ricordi della mia bambina che mi corre incontro facendo l’aeroplano, con le braccia aperte e il cuore spalancato. Nemmeno un video di quelli da mandare ai nonni, con i primi passi incerti e gli urletti di gioia, andata e ritorno tra mamma e papà. Nella mia testa la rivedo il giorno del suo primo compleanno in una casa ancora spoglia di mobili, alzarsi in un attimo da terra e correre via senza più fermarsi, verso qualcosa che le sfugge, mai verso di me. Come se ormai fosse grande per certe cose. Come se non avesse più bisogno di noi.
Anche adesso che mi ha ritrovato, eccola che frena la sua corsa, guarda altrove sovrappensiero, come se all’improvviso avesse di meglio da fare e non fosse più così importante tornare. Incespica nelle parole, rifiuta una carezza, non vuole essere consolata. Temo sia il suo modo di punirmi, quel restare a tutti i costi sui suoi piedi.
E infatti più tardi, quando restiamo sole, me lo ripete: Mamma, perché mi hai fatto prendere quello spavento? Tu non dovevi lasciarmi sola! Non dovevi dimenticarti di me!
Mi vergogno a dirlo, ma ci sono attimi così nella mia vita. Momenti in cui mi sento dimenticata in un angolo, abbandonata, invisibile. Sono cose davvero stupide. La proposta agli amici di una gita fantastica che invece viene boicottata come assurda, la battuta che non fa ridere, il bidone dell’ultimo momento, il tuo parere non richiesto, gli auguri fatti il giorno dopo, la tristezza che ti assale mentre sbucci le patate e nessuno se ne accorge, quell’invidia sottile per la felicità degli altri, la nostalgia per qualcosa che non proverai mai e a cui nemmeno sai dare un nome, le paturnie che non sai arginare e non è colpa di nessuno. Cosette infinitesimali che pure continui a rimuginare fino a farne una malattia. E che ti fanno sentire ancora più insicura, più invisibile, più sola.
Mi basterebbe ricordare che sono figlia bambina e finire la mia corsa in un abbraccio.
* Guardando questo video, regalo di mio marito (bellissimo incontro di don Fabio sull’amore famigliare), ho scoperto di non essere la sola a sentirsi ogni tanto “orfana”. È lunghetto, ma tanto in queste torride serate milanesi nemmeno dopo le 22 si riesce a uscire per un gelatino. Se però siete costretti a portare a spasso il cane, di questa benedetta “orfananza” si parla dal minuto 27.50 al 32 o giù di lì.
“La prima cosa che abbiamo fatto venendo al mondo è stata avere paura… la paura fondamentale dell’uomo, quella dell’abbandono, di essere soli…” Più avanti – roba scontata immagino, per me una scoperta rassicurante – don Fabio dice ad alta voce che tutti, ma proprio tutti, passiamo la vita a evitare l’abbandono. Dimenticandoci che l’unica strategia è ritornare all’origine, a prima di quella ferita, quando ancora ci sentivamo figli amati.