Ho capito che è un problema largamente diffuso quello dei figli maschi che bucano un paio di pantaloni al giorno. Da come te lo raccontano le mamme al parchetto, potresti farci su un esperimento sociale sulla resilienza.
Mio figlio mi risponde che tanto sono alla moda così, e – colpita/affondata – dice che lui da grande vuole fare il povero. Lavorare anche sì, ma gratis, così da poter vivere sotto i ponti con un cane, senza doversi preoccupare di che cosa mangerà e di come si vestirà.
Suo padre, che peraltro io ho conosciuto in giacca e cravatta, sorride di questa fiducia impunita nella Provvidenza.
Io m’infurio e rattoppo.
Sbuffo e smacchio. Blatero e rammendo. Brontolo e incollo.
La leggerezza non è il mio forte.
Tiro su le briciole del pranzo sapendo che dopo due minuti si farà merenda.
Svuoto asciugatrici e piego panni che alla sera saranno di nuovo in lavatrice.
Litigo sempre per le solite cose sapendo che invece dovrei cambiare io.
Tremila volte al giorno rispondo “Arrivoooo, un attimoooo”, ma so già che non ci arriverò nemmeno tra una vita.
Perché dovrei lavorare di notte per stare al passo con i colleghi. Per farmi perdonare la campanella che suona, i virus intestinali, lo sciopero dei bidelli. E pure le unghie senza smalto.
Ma in fondo alla mia giornata c’è sempre un cassetto rimasto aperto, un quaderno dimenticato, un figlio che ancora non rotola, un grembiule da ricucire, un discorso lasciato in sospeso, una telefonata rimandata. C’è sempre qualcosa fatto a metà, e quando provo a tirare si strappa. Una sfilza di insufficienze che non riesco a recuperare. Una serie infinita di non ancora e non abbastanza. Obiettivi solo parzialmente raggiunti.
Alla domenica pomeriggio di un altro weekend campale, in cui cerchiamo di tenere insieme tutti i pezzi senza calcolare un millimetro per l’imprevisto, sbagliamo i conti e dobbiamo arrenderci alle leggi della fisica. Non mi resta che chiudere in casa i due piccoli addormentati e attraversare di corsa il parchetto con il GGG per portarlo a catechismo.
Allora d’accordo, ti lascio qui a metà strada, sto qui a guardarti per un po’ mentre ti allontani, tu ricordati di guardare bene prima di attraversare, mi sembri così minuscolo.
Stai tranquilla mamma che la strada la so, l’ho già fatta mille volte.
Poi di nuovo di corsa nel parchetto, con le chiavi già in mano e sul telefono l’app dell’antifurto.
Per un attimo penso che si sta così bene al sole, e che intorno è tutto uno sbocciare di fiori. Rallento. Potrei fare un giro sull’altalena adesso che è vuota e nessuno mi vede. Arrampicarmi sugli alberi, sdraiarmi nell’erba, sporcarmi persino. Mi basterebbe un minuto per fare un bel sogno.
Ma ci sono i bimbi che dormono, potrebbero svegliarsi, devo correre a casa.
Eccolo di nuovo lì, il rumore dolente dello strappo. All’inizio è un buchetto. Basterebbero due punti, se solo non ci infilassero il dito, o le matite, o i rametti in giardino. Allora provi con le toppe termoadesive, ma lo strappo si ripropone sul margine. T’incaponisci con la doppia toppa, una sotto e una sopra. Ma più rattoppi, peggio fai. Il rattoppo sul rattoppo non tiene.
E se invece mi arrendessi a questi strappi? Se li amassi persino come rughe di vita vissuta? Come certi vecchietti dalle ossa leggerissime e senza macigni sul cuore, che volano via al primo soffio di vento. Che pure hanno combattuto le loro battaglie, ma ora ridono spensierati del loro fardello di anni.
Se li guardassi con tenerezza quegli strappi, senza volerli per forza ricucire.
Per tutte le volte in cui mi sono sentita da buttar via e ho provato a tirare i lembi, facendo peggio.
Come se anche quegli strappi non si potessero riempire d’amore.
Forse allora troverebbero senso, non sutura, anche i miei strappi.
All’alba del terzo giorno.